
Nella città romagnola X ci sono due negozi di strumenti musicali. Uno in periferia, uno vicino al centro. Uno nuovo, giovane, colorato, e l’altro più spento, chiuso, vecchio. Li chiameremo D e I.
Ovvero come Francesco Garoia in arte Garo in arte Paco Garroyo ha deciso di intasare e saturare ulteriormente internet di suoi pareri, storielle, recensioni, futilità varie
Nella città romagnola X ci sono due negozi di strumenti musicali. Uno in periferia, uno vicino al centro. Uno nuovo, giovane, colorato, e l’altro più spento, chiuso, vecchio. Li chiameremo D e I.
Negli anni 60 il vinile andava estremamente bene. Ma era ingombrante e costoso, e serviva un buon impianto audio per goderselo.
Il concetto di “falso amico” vale per la parola inglese factory come per le date del nuovo tour dei Marlene Kuntz. Anzi tutto perché quando uno va a vedere Cristiano Godano e soci si aspetta un concerto rock violento e urlato, e poi perché dal nome (Uno live in love) sembrerebbe il tour promozionale del loro ultimo album. Invece ci si ritrova in una cornice elegantissima come quella del Teatro Socjale di Piangipane, seduti in comode poltroncine bordeaux, coi musicisti armati di chitarre non elettriche ma acustiche intenti a riproporti le meno conosciute canzoni di 4, 5 anni fa.
I Marlene Kuntz sono una delle mie band preferite, ho sempre apprezzato e invidiato la loro incredibile capacità di riuscire a legare perfettamente testi e musica trasformando le emozioni in vibrazioni di corde e pelli. Venerdì sera ne ho avuto l’ennesima prova, anzi, direi che la mancanza di un contesto “casinaro” come quello dei tipici locali rock ne ha amplificato la portata emotiva (ecco che esce il sociologo che è in me). Lo ha riconosciuto lo stesso Godano, che ringraziando il pubblico (non molto numeroso, a dir il vero) per la sua compostezza, ha spiegato come quello fosse il contesto perfetto per proporre vecchie canzoni per loro sacre e per questo poco esposte. E, con mio sommo sbigottimento, ecco pezzi bellissimi e preziosissimi come “La mia promessa” e “Fingendo la poesia”. Io non potevo crederci, non ci avrei mai e poi mai sperato. Come non avrei mai sperato nella durata dell’amplesso: oltre due ore di poesie seguite da arpeggi alla chitarra effettata con delay e giocattoli vari (penso che i Marlene possiedano ogni pedale esistente in commercio), accompagnati da batteria, basso, piano e violino (senza dimenticare il timpano, una delle più utili invenzioni dell’uomo assieme al vinavil e al temperamatite).
E poi la particolare versione di “Sonica”, durata 20 minuti, con monologo di Godano annesso che ci ricorda come la vita sia terribilmente emozionante. Per finire, la storica e immancabile “Nuotando nell’aria”, ballata rock struggente eseguita perfettamente in ogni sfumatura. Forse loro (per quest’occasione in cinque) si saranno anche stancati di suonarla, dopo 15 anni, ma chi la conosce non può non aver versato una lacrimuccia…
La chicca: a mezzanotte, a metà concerto, la distribuzione di cappelletti da parte delle azdore del Socjale è stato un sollievo per gli stomaci degli ascoltatori, e una piacevole sorpresa per i Marlene Kuntz, usciti per un attimo dalla loro “aulicità” per augurare a tutti un buon appetito.
La pecca: quei tre o quattro stronzetti del loggione che pensando di essere al Rock Placet si sono presentati a teatro ubriachi, urlando stupidaggini verso il palco e rischiando di distruggere con i loro schiamazzi l’atmosfera creata con tanta fatica dalla voce bassa di Godano. Al Socjale nessuno avrebbe mai osato di cacciarli via a pedate, ma io personalmente una spinta giù dalla balaustra glie l’avrei data.
CLINIC
Bronson (Ravenna), 17/01/2009
16 €
Stai guidando. È notte fonda, e c’è anche un po’ di nebbia. Hai nel lettore l’ultimo cd dei Clinic, “Do it”, alla traccia 3, “The witch”. Balli, anzi, ti agiti spasmodicamente sui ritmi garage/sixties tamburellando con le dita sul volante. Fai appena in tempo a vedere un gigantesco camion a forma di balena bianca che ti arriva addosso coi suoi fari blu elettrico, poi più niente.
Quando ti risvegli, sei steso sul lettino di una sala operatoria. Te ne rendi conto dall’odore, dal bip delle macchine, dal faro sopra la tua testa. Ti spiazza giusto il fatto che la luce non sia bianca, ma giallo banana fosforescente. Poi un volto ti copre la visuale, scrutandoti. Ha la mascherina bianca e la cuffia blu, da chirurgo inglese. “Bassista, mi dia lo strumento”, dice con un tizio al suo fianco, anche lui in camice. Il bassista gli pone un gigantesco bisturi a forma di chitarra fender, con manico paletta e tutto. “Percussionista, tampone” e ti arriva una bacchettata in faccia che ti addormenta.
Non del tutto: quel che basta per percepire le loro voci e i loro strumenti muoversi su di te.
Comincia così il loro concerto sulla tua povera testa. E comincia in maniera preoccupante: un’accozzaglia di chitarre distorte seguite da un organo vintage passato confusamente all’overdrive e condito con coretti stonati in falsetto, mentre i tom del batterista/tamponatore scandiscono il tuo ritmo vitale, che scopri essere ben più psichedelico di qualsivoglia album dei Pink Floyd. Fai un po’ fatica ad abituarti ai suoni, ma al ritmo no, quello ti prende subito, facendoti muovere in maniera convulsa (dejà-vu?). Continui però ad essere preoccupato, e dopo dieci minuti pensi: “Ma cazzo, hanno mai studiato medicina questi? Sembra che non abbiano mai toccato uno strumento in vita loro! Bello, per Dio, un bel viaggetto onirico/sonoro, ma tecnicamente parlando… in che mani sono finito?”. Come se avessero sentito, i chirurghi attaccano “The second line”, e te la fanno così bene, ma così bene che non ti resta che lasciarti sciogliere e pensare alle cose più belle che ti sono capitate negli ultimi giorni… anche perché poco dopo viene “Corpus Christi”, i cui coretti riverberati agiscono come mille dolci anestesie sui tuoi dolori, lasciando solo alla testa la libertà di movimento per seguire il ritmo ben scandito dal timpano (tra le più belle invenzioni dell’uomo assieme al cannocchiale e al comodino da affiancare al letto). E rimani così, un paziente vegetale semovente beato, a volte scosso da qualche scarica di punk (“Shopping bag”) e poi sedato con una ballad stonata (“Free not free”). Il risveglio è però troppo, troppo brusco.
Infatti tolte le eccezioni sopra citate (a cui possiamo aggiungere le buone esecuzioni di “Harvest” e “The witch”, quella che vi ha fatto schiantare) l’operazione-concerto dei chirurghi inglesi Clinic non è stata certo delle migliori: un po’ frettolosa, con poco trasporto e soprattutto troppo breve. Insomma, i 16 euro di biglietto al Bronson per un poco ispirato concerto di 45 minuti si sono rivelati decisamente eccessivi: considerando i 5 album usciti dal 2000, e quindi la grande mole di materiale trasportabile sul palco, la band di Liverpool (composta da Ade Blackburn, organo e voce, il bassista e corista Brian Campbell, il chitarrista Jonathan Hartley e il tamponatore Carl Turney) stavolta ha un po’ deluso. Lodi, invece, per le splendide bariste del locale dotate di cappellino da crocerossina (l’atmosfera, come spero si sia capito da questa pessima recensione, è stata fondamentale). Voto 5,5.
Francesco Garoia
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