giovedì 29 gennaio 2009

Negozi & negozi


Nella città romagnola X ci sono due negozi di strumenti musicali. Uno in periferia, uno vicino al centro. Uno nuovo, giovane, colorato, e l’altro più spento, chiuso, vecchio. Li chiameremo D e I.


Da D c’è un sacco di roba, dal vintage al futuristico passando per il sorprendente, il tutto accatastato in due enormi piani e un numero infinito di scaffali. Da I ci sono pochi modelli di poca roba, nulla da collezionismo e nulla di sorprendente.


Da D i prezzi sono davvero ragionevoli, si trovano offerte così vantaggiose da fare invidia alle aste su eBay. Da I i prezzi non sono tanto competitivi. Anzi, tutto I non è tanto competitivo.


Da D hanno tre telefoni, sei mail e due siti internet, e non vorrebbero perdere un cliente mai al mondo. Se mandi una mail a I con urgente richiesta d’informazioni, sta pur tranquillo che non ti risponderà prima di un mese.


Da D, quando entri ti trattano come un fratello. Anche se ci vai una volta all’anno. “Wei figone, tutto bene? Di cosa hai bisogno stavolta, bestia? Dai che qui abbiamo tutto! Come va a gnocca?”. Da I sei trattato con enorme riverenza. Anche se ci sei andato il giorno prima. “Ciao, posso esserti utile?”.


Detto questo, dove andrebbe una persona sana di mente? Che domande! Allora porti da D il tuo vecchio basso a cui sei affezionatissimo, perchè ha bisogno di una regolata. Il commesso di D lo guarda poi sentenzia: “Wei ma cos’è sto dinosauro? Non lo userai mica davvero? Ma dai è ora che lo cambi! Dai vieni giù che c’ho un po’ di robe, non fare quella faccia, oggi ti porti a casa il super basso nuovo, ti faccio lo sconto solo perché sei te, ne abbiamo di tutti i tipi, profumati, con la figa, con le tette, ahahah!”


Allora porti il tuo basso da I. Il commesso si mette gli occhiali e lo tira fuori dalla custodia. Stai per aprire bocca, quando lui ti anticipa: “Ma pensa, ma questo è un vero Washburn dei primi anni ’80! Suona molto bene! Eh sì, il legno è un po’ malandato, già la qualità non è ottima… Mi fa piacere vederne uno! Curalo bene perché tra qualche anno può diventare un pezzo da collezione!” e, dopo una settimana, ti ha rifatto il manico nuovo e cambiato le corde per 50 euro. “Solo 50?” gli chiedi. “E’ un bel basso, trattalo bene” risponde lui sorridendo. Con un sorriso che lascia intendere tutta la sua adorazione nei confronti della sua piccola bottega e del legname profumato che contiene.



domenica 25 gennaio 2009

Io ti amo, io ti Mogwai



Se qualcuno mi chiedesse che cos'è l'amore, risponderei: "Boh. Ma assomiglia molto alla canzone Hounted by a freak dei Mogwai".
Cioè è

dolcissimo
terribile
tenero
spietato
leggero
doloroso
sogno
pugno in faccia
spensieratezza
rabbia, tanta
mille colori
buio
calore corporeo
freddo umido
caramella gommosa
carie
corsa in mezzo ai campi
corsa in mezzo ai campi con storta alla caviglia
piccolo animaletto peloso tenerello
piccolo animaletto peloso tenerello schiacciato sotto le ruote di una macchina


E non è così romantico dire "ti amo"
insomma, è davvero riduttivo
Per me, è quasi più sensato dire "ti Mogwai"


(Al Festivalbar, una canzone dove dico "ti Mogwai" non me la passerebbero. Pazienza. La terrò per me, e per tutti coloro che saranno a Bologna il 9 febbraio, a vederli dal vivo)

venerdì 23 gennaio 2009

Adieu, discografia


Negli anni 60 il vinile andava estremamente bene. Ma era ingombrante e costoso, e serviva un buon impianto audio per goderselo.


Come risolvere il problema? I discografici pensarono "proviamo a creare un supporto più leggero e di maggiore fruibilità, in modo da aumentare le vendite" e crearono la musicassetta.


All'inizio degli anni '80 la Sony produsse il primo walkman, che ebbe un successo inimmaginabile. Tanto che la gente cominciò a fagocitare la musica, e quindi a doppiarsi le musicassette.


Come risolvere il problema? I discografici pensarono "proviamo a creare un nuovo supporto, che sia facilmente trasportabile come la cassetta, ma non copiabile come il vinile, in modo da aumentare le vendite" e crearono la musica digitale da mettere su ciddì.


Poi è nato il sistema antisalto, e quindi il lettore ciddì portatile, assieme al masterizzatore a basso costo per pc. La gente ha smesso di doppiare musicassette per cominciare a doppiare i ciddì.


Come risolvere il problema? I discografici pensarono "proviamo a creare una nuova forma di musica, facilmente usufruibile, magari senza supporto stabile, da pagare al megabyte, che non si possa doppiare, in modo da aumentare le vendite" e crearono i file mp3.


Ora, avrete capito tutti che chiunque negli ultimi vent'anni abbia avuto a che fare con l'industria musicale si è rivelato un povero coglione. Si può dare la colpa ai pirati, certo, o ai marocchini che taroccano i cd, certo, o ai siti di file sharing, certo, ma se uno si spara e poi da la colpa al proiettile per me rimane un povero coglione da internare.


Qualche giorno fa l'ammissione da parte del presidente del consorzio dei discografici inglesi, Feagarl Sharkey: "Abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo fatto arrestare ragazzini che non avevano un soldo, abbiamo scommesso su modelli che si sono rivelati fallimentari,abbiamo lottato per anni contro la musica illegale per ottenere il nulla. Basta, dobbiamo cercare nuove vie."


Io personalmente non vedo l'ora di sapere quale nuovo favoloso marchingegno inventerà l'industria musicale globale per finire sempre più sottoterra, essendo un sostenitore della musica libera da ogni vincolo (e chi vuol vivere con la musica pop si pigli su la chitarrina e vada nei locali a suonare, anche nelle più sporche bettole sconosciute).


Ma il mio buon cuore mi spinge a dare un consiglio a tutti gli esperti del settore: tornare al vinile. Il suono è spaziale, col cazzo che si doppia, è un oggetto di culto. E costa tanto: così finalmente la gente comincerà a dare il giusto valore alle cose, e i dischi dei Led Zeppelin rimarranno per sempre mentre non ci sarà più spazio per coloro che fanno schifezze da bieco consumo giornaliero (dai, ragazzine di 15 anni, compratevi il vinile delle Lollipop a 40 euro più il giradischi!!). Un gigantesco crollo del sistema, che lascerà morti sul campo Dari e Giusy Ferreri vari, ma che porterà una stabilità del mercato (ridotto) che non si vede da decenni. La gente, forse, smetterà di guardare X-Factor e giocare a Guitarhero per andare ai concerti di Paolo Conte e imparare a suonare una chitarra, una di quelle vere, con le corde e le emozioni annesse.


Non è mica un utopia. Basterebbe, domattina, non pubblicare 20 mila copie dell' "imperdibile nuovo cd dell'artista xxx" per pubblicarne 5 mila copie in vinile. E chi lo vuole davvero ascoltare, se lo compra. Altrimenti continuiamo a scaricarci le robe, senza rompere le palle con bollini e costosi diritti d'autore (grazie).


E forse tutto questo finirà nella mia tesi di laurea. Viva i Creative Commons.


lunedì 19 gennaio 2009

Ma Marlene (Kuntz) al Teatro Socjale

MARLENE KUNTZ
Teatro Socjale (Piangipane, Ravenna), 16/01/2009
25 €



Il concetto di “falso amico” vale per la parola inglese factory come per le date del nuovo tour dei Marlene Kuntz. Anzi tutto perché quando uno va a vedere Cristiano Godano e soci si aspetta un concerto rock violento e urlato, e poi perché dal nome (Uno live in love) sembrerebbe il tour promozionale del loro ultimo album. Invece ci si ritrova in una cornice elegantissima come quella del Teatro Socjale di Piangipane, seduti in comode poltroncine bordeaux, coi musicisti armati di chitarre non elettriche ma acustiche intenti a riproporti le meno conosciute canzoni di 4, 5 anni fa.


I Marlene Kuntz sono una delle mie band preferite, ho sempre apprezzato e invidiato la loro incredibile capacità di riuscire a legare perfettamente testi e musica trasformando le emozioni in vibrazioni di corde e pelli. Venerdì sera ne ho avuto l’ennesima prova, anzi, direi che la mancanza di un contesto “casinaro” come quello dei tipici locali rock ne ha amplificato la portata emotiva (ecco che esce il sociologo che è in me). Lo ha riconosciuto lo stesso Godano, che ringraziando il pubblico (non molto numeroso, a dir il vero) per la sua compostezza, ha spiegato come quello fosse il contesto perfetto per proporre vecchie canzoni per loro sacre e per questo poco esposte. E, con mio sommo sbigottimento, ecco pezzi bellissimi e preziosissimi come “La mia promessa” e “Fingendo la poesia”. Io non potevo crederci, non ci avrei mai e poi mai sperato. Come non avrei mai sperato nella durata dell’amplesso: oltre due ore di poesie seguite da arpeggi alla chitarra effettata con delay e giocattoli vari (penso che i Marlene possiedano ogni pedale esistente in commercio), accompagnati da batteria, basso, piano e violino (senza dimenticare il timpano, una delle più utili invenzioni dell’uomo assieme al vinavil e al temperamatite).


E poi la particolare versione di “Sonica”, durata 20 minuti, con monologo di Godano annesso che ci ricorda come la vita sia terribilmente emozionante. Per finire, la storica e immancabile “Nuotando nell’aria”, ballata rock struggente eseguita perfettamente in ogni sfumatura. Forse loro (per quest’occasione in cinque) si saranno anche stancati di suonarla, dopo 15 anni, ma chi la conosce non può non aver versato una lacrimuccia…


La chicca: a mezzanotte, a metà concerto, la distribuzione di cappelletti da parte delle azdore del Socjale è stato un sollievo per gli stomaci degli ascoltatori, e una piacevole sorpresa per i Marlene Kuntz, usciti per un attimo dalla loro “aulicità” per augurare a tutti un buon appetito.


La pecca: quei tre o quattro stronzetti del loggione che pensando di essere al Rock Placet si sono presentati a teatro ubriachi, urlando stupidaggini verso il palco e rischiando di distruggere con i loro schiamazzi l’atmosfera creata con tanta fatica dalla voce bassa di Godano. Al Socjale nessuno avrebbe mai osato di cacciarli via a pedate, ma io personalmente una spinta giù dalla balaustra glie l’avrei data.



Il mio vecchio demo...


Può succedere, se si è degli sfigati come me, di non ricordarsi l'indirizzo del proprio nuovo blog. Può succedere che allora si cerchi "francesco garoia blog" su Google, e che venga fuori, oltre a una vecchia foto dove il sottoscritto, poco più che bambino, gioca a calcio, la breve recensione di un vecchio demo che era stato distribuito a qualche etichetta indipendente...

Tra l'altro un conciso ma azzeccatissimo articolo, datato autunno 2007. Ringrazio infinitamente , anche se in ritardo, il signor Arturo Bandini di Beautiful freak per avermi messo ulteriore buon umore.

"Un cd masterizzato e sei tracce, questo è “Performed something” di Francesco Garoia. Non è vero, c’è qualcosa di più che va oltre un semplice demo autoprodotto e registrato tra le mura di casa. Sei pezzi in bilico tra melodia e sperimentazione (Tele-vision break my mind), con certe sonorità magiche provenienti dalla terra del ghiaccio (Last song before sleep) e altre che si rifanno allo stile straziante di Thom Yorke e dei Radiohead (Rainy days), e poi altre ancora che richiamano il rock elettronico dei francesi Air (Performed something). Questo ragazzo di musica ne ha ascoltata tanta, ma soprattutto ha tanto da dire e suonare, con chitarre e synth. Io lo tengo per i miei ascolti autunnali e speriamo che Babbo Natale gli porti in dono la possibilità di diffondere la sua musica".

(Babbo Natale in realtà mi ha portato ben poco in questi due anni, ma è giustificato: io non ci credo)

domenica 18 gennaio 2009

Clinic al Bronson

CLINIC

Bronson (Ravenna), 17/01/2009

16 €



Stai guidando. È notte fonda, e c’è anche un po’ di nebbia. Hai nel lettore l’ultimo cd dei Clinic, “Do it”, alla traccia 3, “The witch”. Balli, anzi, ti agiti spasmodicamente sui ritmi garage/sixties tamburellando con le dita sul volante. Fai appena in tempo a vedere un gigantesco camion a forma di balena bianca che ti arriva addosso coi suoi fari blu elettrico, poi più niente.


Quando ti risvegli, sei steso sul lettino di una sala operatoria. Te ne rendi conto dall’odore, dal bip delle macchine, dal faro sopra la tua testa. Ti spiazza giusto il fatto che la luce non sia bianca, ma giallo banana fosforescente. Poi un volto ti copre la visuale, scrutandoti. Ha la mascherina bianca e la cuffia blu, da chirurgo inglese. “Bassista, mi dia lo strumento”, dice con un tizio al suo fianco, anche lui in camice. Il bassista gli pone un gigantesco bisturi a forma di chitarra fender, con manico paletta e tutto. “Percussionista, tampone” e ti arriva una bacchettata in faccia che ti addormenta.


Non del tutto: quel che basta per percepire le loro voci e i loro strumenti muoversi su di te.


Comincia così il loro concerto sulla tua povera testa. E comincia in maniera preoccupante: un’accozzaglia di chitarre distorte seguite da un organo vintage passato confusamente all’overdrive e condito con coretti stonati in falsetto, mentre i tom del batterista/tamponatore scandiscono il tuo ritmo vitale, che scopri essere ben più psichedelico di qualsivoglia album dei Pink Floyd. Fai un po’ fatica ad abituarti ai suoni, ma al ritmo no, quello ti prende subito, facendoti muovere in maniera convulsa (dejà-vu?). Continui però ad essere preoccupato, e dopo dieci minuti pensi: “Ma cazzo, hanno mai studiato medicina questi? Sembra che non abbiano mai toccato uno strumento in vita loro! Bello, per Dio, un bel viaggetto onirico/sonoro, ma tecnicamente parlando… in che mani sono finito?”. Come se avessero sentito, i chirurghi attaccano “The second line”, e te la fanno così bene, ma così bene che non ti resta che lasciarti sciogliere e pensare alle cose più belle che ti sono capitate negli ultimi giorni… anche perché poco dopo viene “Corpus Christi”, i cui coretti riverberati agiscono come mille dolci anestesie sui tuoi dolori, lasciando solo alla testa la libertà di movimento per seguire il ritmo ben scandito dal timpano (tra le più belle invenzioni dell’uomo assieme al cannocchiale e al comodino da affiancare al letto). E rimani così, un paziente vegetale semovente beato, a volte scosso da qualche scarica di punk (“Shopping bag”) e poi sedato con una ballad stonata (“Free not free”). Il risveglio è però troppo, troppo brusco.


Infatti tolte le eccezioni sopra citate (a cui possiamo aggiungere le buone esecuzioni di “Harvest” e “The witch”, quella che vi ha fatto schiantare) l’operazione-concerto dei chirurghi inglesi Clinic non è stata certo delle migliori: un po’ frettolosa, con poco trasporto e soprattutto troppo breve. Insomma, i 16 euro di biglietto al Bronson per un poco ispirato concerto di 45 minuti si sono rivelati decisamente eccessivi: considerando i 5 album usciti dal 2000, e quindi la grande mole di materiale trasportabile sul palco, la band di Liverpool (composta da Ade Blackburn, organo e voce, il bassista e corista Brian Campbell, il chitarrista Jonathan Hartley e il tamponatore Carl Turney) stavolta ha un po’ deluso. Lodi, invece, per le splendide bariste del locale dotate di cappellino da crocerossina (l’atmosfera, come spero si sia capito da questa pessima recensione, è stata fondamentale). Voto 5,5.


Francesco Garoia



Per cominciare...

...a saturare la rete, riporto un'articolo scritto l'estate scorsa sul concertone dei Massive Attack a Ravenna. L'originale era stato pubblicato sul quotidiano Ravennanotizie, mi prendo la libertà di riportarmelo anche sul mio nuovo blogsgsg


MASSIVE ATTACK
Pala de Andrè (Ravenna), 19/07/2008
30 €


Che i critici lo vogliano o no, che agli alternativi piaccia o meno, un grande concerto pop si riconosce soprattutto per la partecipazione (necessariamente numerosa: pop) e l’attenzione del pubblico. Il successo è ancora più accentuato se, anziché il circo del popolino, viene messa in scena una delicatissima pièce. Ieri sera il Pala de André, per lo spettacolo di chiusura del Ravenna Festival 2008, era incredibilmente gremito: persone da tutta Italia (ma non solo, anche comitive tedesche) si sono ritrovate a Ravenna (per una sera, davvero, capitale della cultura) per assistere a un evento speciale.

Effettivamente gli inglesi Massive Attack non fanno musica per tutti i gusti.

Percussioni tribali che somigliano più al battere cardiaco che alla batteria di un gruppo rock, onde gigantesche di suoni e correnti calde di note sparate sulla folla, che vanno a formare vortici ipnotici dai quali solo chi ha l’orecchio più attento riesce a uscire incolume, senza gridare alla bruttura o alla noia per ciò a cui sta assistendo. Chiamasi trip hop: testi recitati sottovoce, o cantati con toni caldi, su basi ai limiti della psichedelia che appaiono e si dissolvono nel nulla.

No, i Massive Attack non sono proprio, come si suol dire, “commerciali”: Robert del Naja canta quasi completamente nell’oscurità, senza ostentarsi e dare la possibilità al pubblico di orientarsi nel marasma di onde sonore, Grant Marshall manipola basi e mixer in modo che non si possa riconoscere quali suoni vengono dal computer, quali dal sintetizzatore e quali dagli strumenti a corda, mentre gli otto musicisti da loro diretti - per la cronaca batteria, percussioni, sintetizzatore, basso, chitarra e tre voci - danzano con delicatezza e maestria, come sognanti, in quel vortice. La musica ascoltata (attenzione: non “sentita”) ieri sera non va cantata sotto la doccia come i successi Sanremesi, va vissuta sul momento.

Si potrebbe dire che i Massive Attack suonino una “Settimana enigmistica” della canzone, con cruciverba di violini, rebus di chitarre distorte con delay e tremolo, “trova le differenze” tra giri di basso che sembrano tutti uguali, ma in realtà fanno da bordone per diverse situazioni. Cervellotico sì, ma neanche tanto: come tutti i linguaggi del mondo.

Se poi alla musica si aggiunge il maxischermo che ieri sera i Massive Attack da Bristol avevano installato alle loro spalle, ecco la ciliegina sulla torta: le citazioni di Mandela, Alinsky e San Suu Kyi sulla libertà e la democrazia (in opposizione alle parole di Pinochet e Stalin) e gli slogan dedicati ai diritti umani che comparivano sul palco davano veramente poco tempo a cervello e coscienza del pubblico di rilassarsi, trasportandolo definitivamente in un viaggio onirico da vivere e ballare con attenzione dal primo all’ultimo minuto.


Francesco Garoia